La chimerica impresa di Buran, lo Space Shuttle russo

Simone Semeraro • 28 dicembre 2023

Il programma statunitense Space Shuttle è diventato sinonimo della corsa allo spazio, forse anche più dell’Apollo che ha portato l’uomo sulla Luna. Proprio per questo, l’allora Unione Sovietica cercò di emulare gli sforzi nella creazione di una navicella riutilizzabile per abbattere i costi delle missioni spaziali, soprattutto quelle che prevedessero equipaggio umano.


Il primo risultato fu il prototipo Burya (MiG-105), che tra i piloti collaudatori annoverava anche il cosmonauta German Titov, il secondo uomo nello spazio. Dopo i primi successi dello Space Shuttle, il programma sovietico fu accelerato finanziando la produzione di Bor, una serie di modelli in scala 1:2 ed 1:3 di quello che sarebbe poi diventato lo spazioplano Buran.

Il 15 Novembre 1988, dopo 12 anni di sviluppo, tra intoppi tecnologici e ritardi sulla tabella di marcia, venne finalmente lanciato il Buran (nome ispirato dal vento forte e gelido tipico delle steppe sarmatiche, traducibile come “tormenta”) attaccato al lanciatore Energia, nonostante al momento le avversità climatiche minacciavano l’aborto della missione.

Controversa fu la scelta di effettuare il lancio senza equipaggio, come fu invece la controparte americana. Ciononostante, la missione fu un totale successo e la precisione con cui avvennero le fasi completamente automatiche di lancio, inserimento orbitale, rientro ed atterraggio, furono senza precedenti. Una vittoria su tutti i fronti!

Malgrado la portata del successo inaugurativo, il primo viaggio del Buran fu anche l’ultimo, dato che il suo programma, mai ufficialmente cancellato, vide i suoi fondi non più finanziati nel 1993, scomparendo completamente dai bilanci preventivi successivi.

Originariamente tre modelli Buran furono messi in preventivo, ma nel 1983, si aggiunse il prospetto per la realizzazione di altri due, per un totale di ben cinque modelli. Sfortunatamente, la chiusura definitiva del programma fu strettamente legata alla caduta dell’Unione Sovietica, il cui crollo economico fu anche parzialmente dovuto proprio al finanziamento del progetto Energia-Buran stesso, che aveva visto lo stanziamento di 14,6 miliardi di rubli sovietici.


Per renderne più fruibile la valutazione, benché difficilmente apprezzabile a causa delle particolari condizioni sociopolitiche della USSR, una stima spannometrica prevederebbe la conversione dell’ammontare a circa 8,7 miliardi di dollari statunitensi del 1986 (oggi equivalenti a circa 15,82 miliardi di USD), cifra nettamente inferiore ai 43,1 miliardi di USD devoluti dal governo americano al programma Space Shuttle tra il 1971 ed il 1990.

Ad ogni modo, dei cinque modelli previsti, solo tre furono effettivamente costruiti, mentre gli altri due rimasero solo in fase progettuale, ad eccezione di un motore costruito per test propulsivi e diverse loro componenti.

I primi due sono attualmente situati nel cosmodromo di Baikonur, in Kazakhstan. Di essi, il primissimo Buran è stato danneggiato nel 2002, a causa di un collasso strutturale del tetto dell’hangar in cui era stazionato. Immediatamente di fianco ad esso, vi è il secondo Buran, ancora ammirabile nella sua interezza. La struttura kazaka è attualmente sorvegliata da sicurezza armata, ma ciò non ha scoraggiato numerosi tentativi di infiltrazione da parte di curiosi turisti avventurieri.

Infine, il terzo ed ultimo Buran costruito integralmente è conservato nel museo a cielo aperto nei pressi dell’aeroporto di Zhukovsky, vicino Mosca.

Sembra che di recente Vadim Zadorozhny, proprietario di un museo di veicoli, abbia acquistato lo spazioplano per restaurarne l’aspetto ed esporlo in un museo. I pezzi degli altri due sono disseminati in tutto il mondo, alcuni di essi sono stati addirittura avvistati su siti di e-commerce. Parallelamente, le parti ed i sistemi effettivamente funzionanti sono stati venduti o incorporati da Roscosmos.

Le carcasse del programma Buran sono oggi reminiscenze del glorioso passato del programma spaziale sovietico, totalmente abbandonate alle intemperie, insieme agli edifici che le ospitano. Chissà se con migliori fortune sarebbero riuscite a spiccare il volo e diventare icone della conquista umana dello spazio. Alle condizioni attuali, possiamo solo sperare che questi gioielli dell’ingegneria spaziale non vengano completamente destinati all’oblio.

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